Analisi dei concetti di libertà, massa e Stato-dio nei regimi totalitari
Introduzione
Paura della libertà è uno dei più importanti scritti di Carlo Levi, ma purtroppo anche il meno noto. Scrisse quel breve ma denso saggio nel 1939 in esilio in Francia per pubblicarlo poi alla fine della guerra nel 1946 presso Einaudi. Nel dopoguerra l’opera fu considerata inattuale e criticata anche dagli intellettuali marxisti per lo stile simbolico e l’assenza di fatti storici concreti. In verità è proprio la presunta inattualità che dà valore universale al testo insieme al fatto che svela i fenomeni totalitari che retrospettivamente si possono applicare ai regimi di stampo sia nazifascista che stalinista. Il linguaggio rispecchia il momento di stesura e non è né chiassoso, né propagandistico ma molto metaforico. Del resto Carlo Levi era un pittore e proprio Italo Calvino, che peraltro apprezzava molto Paura della libertà considerandolo centrale per la comprensione della restante produzione letteraria dell’autore, scrisse: Dipingere con parole, scrivere con immagini.[1] Questi fattori in ogni caso impedirono la fortuna critica del saggio che dopo due edizioni dimenticate degli anni ’60 e ’70 nel 2008 è stato riproposto in una nuova edizione dalla Neri Pozza di Vicenza con una prefazione del filosofo Giorgio Agamben.