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Le Operette morali di Giacomo Leopardi

Analisi e commento di una selezione di dialoghi tratti dalle Operette Morali di Giacomo Leopardi, un capolavoro del grande filologo e poeta dell’Ottocento

Introduzione

Giacomo Leopardi è una pietra miliare della letteratura italiana, un poeta sublime, un grande filologo e un pensatore originale di un’immensa cultura classica. Purtroppo spesso viene ridotto al pessimismo cosmologico senza tener conto della vastità del suo pensiero. La malinconia ha senz’altro avuto un posto importante nella vita del poeta romantico anche se oggi lo si potrebbe definire meglio come scettico. Leopardi era scettico nei confronti dell’umanità, della scienza, della religione, della filosofia, dei valori morali e dopo secoli chi potrebbe dargli torto? La sua grandezza risiede nell’inventiva, nella creatività letteraria (per la quale le Operette morali sono un esempio eccellente) nonché nel suo spirito libero ed indipendente. Egli fu molto apprezzato da Friedrich Nietzsche che prima di essere filosofo era anche filologo.

Leopardi non era un vero e proprio filosofo ma con il suo pensiero ha indubbiamente anticipato l’esistenzialismo. In tedesco e inglese lo si potrebbe definire come Essayist, il che rende d’obbligo un confronto con il fondatore di questo genere, Michel de Montaigne di cui abbiamo già approfondito i celebri Saggi. Lo Zibaldone dei pensieri è l’opera più voluminosa di Leopardi e più che un diario intellettuale costituisce una raccolta di più di 4500 pagine di brevi saggi in cui l’autore spazia tra filosofia, filologia e osservazioni di carattere morale. Non era un filosofo sistematico, ma creativo e “in continua evoluzione”, proprio come il precursore francese del genere. Lo Zibaldone dei pensieri sul quale Leopardi lavorò tra il 1817 (quando aveva appena 19 anni) e il 1832 costituisce la base teorica sia dei Pensieri che delle Operette morali.

Cenni sulla vita di Giacomo Leopardi

Melencolia
Albrecht Dürer: Melancholia I, incisione del 1514, Staatliche Kunsthalle Karlsruhe.

Giacomo Leopardi nacque il 29 giugno del 1798 a Recanati nelle Marche, figlio del conte Monaldo e della marchesa Adelaide. Il padre era ultra-conservatore e la madre bigotta, di conseguenza l’atmosfera che si respirava in casa era estremamente chiusa ed opprimente. In più Recanati era un piccolo paese dello Stato Pontifico, lontano dai centri culturali dell’Italia, ma immerso nella natura. Rispettivamente uno e due anni dopo di lui nacquero il fratello Carlo e la sorella Paolina con i quali trascorse un’infanzia felice tra la natura e i libri. Il precettore dei tre figli maggiori fu l’abate Sebastiano Sanchini e il giovane Leopardi poté fare l’autodidatta anche grazie alla vastissima biblioteca paterna. Ottenne risultati eccezionali nello studio dei classici e delle lingue antiche. Nel 1809 all’età di solo 11 anni compose il sonetto La morte di Ettore e nel 1813 intraprese lo studio del greco, sempre come autodidatta eseguendo le prime traduzioni di classici a partire dal 1815 (Batracomiomachia e parti dell’Odissea di Omero, Vita di Plotino di Porfirio, ecc…). Dal latino tradusse parti dell’Eneide e in adolescenza acquisì una cultura umanistica immensa che sarebbe poi confluita nella sua produzione letteraria. La maggior parte della sua produzione lirica fu composta negli anni venti in cui Leopardi iniziò a frequentare gli ambienti letterari dove conobbe sia Manzoni che Stendhal. Riuscì a pubblicare molte delle sue opere ancora in vita, soltanto lo Zibaldone dei Pensieri e l’Epistolario furono pubblicati postumi.

Le Operette morali

Nell’antichità, molto cara a Leopardi, i dialoghi costituivano il genere par excellence, basta pensare a Platone. I modelli letterari delle Operette morali sono i Dialoghi dei morti (Νεκρικοί Διάλογοι) di Luciano di Samostata (II secolo d. C.) e i Moralia (Ἐθικά) di Plutarco (I secolo d.C.). Il titolo dell’opera leopardiana è ironico (piccole opere) e l’autore dà voce ai suoi pensieri esposti nello Zibaldone e nei Pensieri inventando appunto dialoghi tra personaggi mitologici o storici. Il piacere della lettura delle Operette morali è immenso anche per via del fatto che Leopardi ci fa avvicinare a tantissima letteratura antica di cui egli fu un fine conoscitore. Gli argomenti delle Operette morali sono di natura appunto morale, parlano della condizione dell’uomo, della morte, della natura, dell’infelicità, del suicidio, dell’antropocentrismo, ecc. Mentre questi concetti vengono esposti a mo’ di trattato nello Zibaldone e nei Pensieri, nelle Operette morali Leopardi ha modo di esprimere al meglio anche la sua creatività letteraria e il suo stile particolare. A tratti le Operette morali sono divertentissime, per esempio quando Leopardi si schiera ripetutamente contro l’antropocentrismo. Con le sue riflessioni sarcastiche e acute ci insegna a non prenderci troppo sul serio e riconosce l’assurdità di molte occupazioni ed atteggiamenti umani.

Le Operette morali furono quasi tutte scritte nel 1824; il Dialogo di Plotino e di Porfirio risale invece al 1827 così come Il Copernico, mentre il Dialogo di un venditore d’almanacchi e di un passeggere e il Dialogo di Tristano e di un amico furono composti nel 1832. Esistono diverse edizioni delle Operette morali. La prima fu pubblicata a Bologna ancora nel 1824, la seconda a Milano nel 1827, la terza a Firenze nel 1834 e la quarta e ultima durante la vita di Leopardi a Napoli nel 1836, sequestrata peraltro dalla censura borbonica. Le Operette morali furono scritte in un periodo di tristezza, ne fa autoironia Leopardi stesso nell’ultimo dialogo di Tristano e di un amico che si riferisce all’opera stessa in maniera esplicita. (Amico: Ho letto il vostro libro. Malinconico al vostro solito.[1]) Leopardi era senz’altro malinconico, ma le vicende biografiche hanno giocato un ruolo importante: oltre all’ambiente difficile e austero della casa paterna, Leopardi per tutta la vita fu un uomo malato, soffriva di asma, problemi alle ossa, disturbi gastrointestinali e (forse la cosa peggiore) anche di una malattia agli occhi che comportò la sua conversione da filologo (che legge) a filosofo (che pensa) e che lo tenne lontano per diversi periodi dagli libri o limitò la loro lettura.

Leopardi Panichi, Recanati
Statua di Giacomo Leopardi di Ugolino Panichi, Recanati, 1864

Oltre ai problemi di salute Leopardi fu tormentato da storie d’amore non corrisposte e non riuscì mai a realizzarsi negli affetti sentimentali mentre ebbe più fortuna nell’amicizia. Non possiamo fare a meno di pensare all’esperienza di Cesare Pavese, sfortunato nell’amore e asmatico pure lui[2]. Pavese conosceva bene Leopardi, probabilmente le Operette morali furono di ispirazione per i Dialoghi con Leucò anche se ci sono molte differenze tra le due opere. Leopardi scrisse un’opera molto filologica mentre quella di Pavese è soprattutto letteraria e nei suoi dialoghi si focalizza esclusivamente sulla mitologia greca. Entrambi i letterati sono morti molto giovani, Leopardi morì a Napoli qualche giorno prima del suo 39° compleanno di un’edema polmonare e un conseguente attacco d’asma. L’anno prima era scampato al pericolo del colera che imperversava nella città partenopea e che egli nella corrispondenza aveva apostrofato più volte come peste. Al contrario di Pavese non prese mai in considerazione il suicidio (anche se ci rifletteva molto) e in un suo famoso dialogo anche Plotino dissuade Porfirio da quel gesto. Per Leopardi la migliore medicina contro il male della vita era la letteratura: “Felicità da me provata nel tempo del comporre, il miglior tempo ch’io abbia passato in mia vita, e nel quale mi contenterei di durare finch’io vivo.”[3]

Dialogo d’Ercole e di Atlante

Il destino di Atlante fu quello di reggere la volta celeste. Era di statura enorme e dominava un vasto impero. La sua sciagura ebbe inizio quando incontrò Perseo. Come tutti i ricchi, Atlante era tormentato dall’idea di perdere ciò che aveva. Si rifiutò perciò di ospitare Perseo nel suo regno e quello lo spaventò con il volto orrendo della Medusa. “Grande quant’era, Atlante diventò un monte […] e tutto il cielo con le sue tante stelle poggiò su di lui.”[4] Ercole si addossò il cielo al posto di Atlante affinché egli poté aiutarlo a cogliere i pomi delle Esperidi (11° fatica – Ercole e le mele d’oro). Nel Dialogo d’Ercole e di Atlante, Giove manda Ercole da Atlante per farlo un po’ riposare reggendo al suo posto il peso del mondo: “[…] in caso che tu fossi stracco di cotesto peso, che io me lo addossi per qualche ora, come feci non mi ricordo quanti secoli sono, tanto che tu pigli fiato e ti riposi un poco.”[5] Ercole allude ovviamente alla sua 11° fatica. E’ curioso che in letteratura Atlante a volte regge il cielo (per esempio in Ovidio), in altre la terra o le colonne che la sostengono (Omero nell’Odissea, Eschilo nel Prometeo incatenato). La figura di Ercole fu cara anche a Dante Alighieri che nel canto XXVI dell’Inferno narra della morte di Ulisse avvenuta mentre sfidava appunto le colonne d’Ercole nello stretto di Gibilterra. Nel Dialogo d’Ercole e di Atlante Leopardi opta per un Atlante che alla Tiziano Aspetti e Lucas Cranach sostiene il globo terrestre.

Cranach: Ercole e Atlante
Lucas Cranach il Vecchio (1472 – 1553 ), Ercole allegerisce Atlante del globo, 1530 circa

L’Atlante leopardiano risponde ad Ercole che non ha bisogno del suo gentile aiuto, in quanto il mondo non pesa più tanto: “[…] il mondo è fatto così leggero, che questo mantello che porto per custodirmi dalla neve, mi pesa di più.”[6] Non è però ancora tutto, il mondo non solo ha perso spessore ed è diventato leggero, non fa nemmeno più rumore, tantoché Atlante aveva sospettato che fosse morto: “[…] e io per me stetti con grandissimo sospetto che fosse morto, aspettandomi di giorno in giorno che m’infettasse col puzzo; e pensava come e in che luogo lo potessi seppellire, e l’epitaffio che gli dovesse porre. Ma poi veduto che non marciva, mi risolsi che di animale che prima era, si fosse convertito in pianta, come Dafne e tanti altri; e che da questo nascesse che non si moveva e non fiatava: e ancora dubito che fra poco non mi gitti le radici per le spalle, e non vi si abbarbichi.”[7] Leopardi conosceva senz’altro molto bene le Metamorfosi di Ovidio dove leggiamo non solo di Dafne trasformata in alloro ma anche la commovente storia di Filèmone e Bàucide che alla morte nello stesso istante si trasformano in alberi vicini.

Tiziano Aspetti: Atlante, Venezia
Tiziano Aspetti (1559 – 1606): Atlante che sostiene il mondo, Palazzo Ducale, Venezia, 1600 circa

Ercole pensa invece che la terra dorma e propone un gioco di palla con la “sferuzza” … Capita quello che doveva capitare, la terra cade: “Atlante: Corri presto in là; presto ti dico; guarda per Dio, ch’ella cade: mal abbia il momento che tu ci sei venuto.”[8] Apparentemente la caduta della terra non ha però avuto ripercussioni negative. Alludendo ad Orazio, Ercole conclude che “oggi tutti gli uomini sieno giusti, perché il mondo è caduto, e niuno s’è mosso.”[9] Può anche crollare il mondo senza che la massa addormentata degli uomini reagisca. Con la caricatura della terra Leopardi mette in ridicolo il sistema geocentrico e crea un collegamento con un altro dialogo dal titolo Il Copernico.

In quel dialogo apprendiamo che il sole si è stancato della presunzione della terra: “[…] io sono stanco di questo continuo andare attorno per far lume a quattro animaluzzi, che vivono in su un pugno di fango, tanto piccino che io, che ho buona vista, non lo arrivo a vedere: e questa notte ho fermato di non voler altra fatica per questo; e che se gli uomini vogliono veder lume, che tengano i loro fuochi accesi, o provveggano in altro modo.”[10] Secondo il sole sarebbe ora che cominciasse a muoversi la terra, in quanto è “sciocchissima la fatica di correre alla disperata così grande e grosso come io sono, intorno a un granellino di sabbia.”[11] L’antropocentrismo secondo Leopardi è sciocco e l’uomo deve smettere di sentirsi il centro dell’universo. Il sole dà anche due avvertimenti a Copernico: stare attento a non procurarsi qualche scottatura (alludendo a Giordano Bruno) e dedicare la sua opera al papa.[12] De revolutionibus orbium caelestium (1547) è infatti dedicato a papa Paolo III. Leopardi non fu uno scienziato, ma seguiva le discussioni tecniche e scientifiche della sua epoca con grande interesse e coltivava interessi naturalistici e geografici.

Dialogo di un fisico e di un metafisico

Chirone educa Achille, Ercolano.
Chirone educa Achille, affresco a Ercolano, 1° secolo d.C. (Museo archeologico nazionale di Napoli)

Nel Dialogo di un fisico e di un metafisico il fisico trova l’arte di vivere lungamente e il metafisico lo implora di nascondere la scoperta in un cassetto che potrà essere aperto soltanto quando qualcuno avrà scoperto l’arte di vivere felicemente. “Perché se la vita non è felice, che fino a ora non è stata, meglio ci torna averla breve che lunga.”[13] Cita poi il saggio Chirone che compare anche nei Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese in quanto stufo dell’immortalità. “[…] il saggio Chirone, che era dio, coll’andar del tempo si annoiò della vita, pigliò licenza da Giove di poter morire e morì. Or pensa, se l’immortalità rincresce agli Dei, che farebbe agli uomini.”[14] Nella mitologia greca Chirone era un centauro molto saggio della Tessaglia che insegnò la medicina ad Asclepio ed educò anche gli eroi Achille e Giasone. Della sorte di Chirone ci parla anche Ovidio nelle Metamorfosi: “Anche tu, caro padre mio, che ora sei immortale e creato – così fu deciso quando nascesti – per sopravvivere per tutti i secoli, un giorno desiderai di poter morire, quando sarai tormentato dal veleno di un terribile serpente che ti si spanderà nelle membra attraverso una ferita, e gli dei, da eterno che sei, ti renderanno soggetto alla morte, e le tre Parche taglieranno il filo della tua vita.”[15] Nella mitologia si narra anche che Chirone scambiò la sua immortalità con Prometeo, ma siccome era molto caro a Zeus lo volle vicino a sé e diede origine alla costellazione di Centauro.

Mentre per il fisico quello che conta di più è allungare la quantità della vita, il metafisico pensa alla qualità che si esprime in una vita felice. Cita alcuni popoli lontani che hanno una vita breve di una quarantina d’anni ma intensa e felice. Se contasse soltanto la quantità non dovrebbero esistere i suicidi. “[…] non il semplice essere, ma il solo essere felice, è desiderabile.”[16] Anche in conclusione del Dialogo di un fisico e di un metafisico apprendiamo che la vita è degna di essere vissuta soprattutto se è felice: “Ma in fine, la vita debb’esser viva, cioè vera vita; o la morte la supera incomparabilmente di pregio.”[17] L’infelicità per Leopardi è collegato anche al fatto che siamo alienati dalla natura e approfondisce questo argomento in altri dialoghi con riferimento al suicidio.[18]

Dialogo di un venditore d’almanacchi e di un passeggere

Questo dialogo è posteriore di 8 anni agli altri del volume e Leopardi lo compose soltanto nel 1832; tratta un argomento simile a quello del Dialogo di un fisico e di un metafisico: l’immortalità. Tutti vogliono vivere eternamente, ma nessuno vuole rifare la stessa sua vita. Il passeggere chiede al venditore d’almanacchi: “Ma se aveste a rifare la vita che avete fatta nè più nè meno, con tutti i piaceri e i dispiaceri che avete passati?”[19] Il venditore risponde che non vorrebbe. Il passeggere non è stupito perché “se a patto di riavere la vita di prima, con tutto il suo bene e il suo male, nessuno vorrebbe rinascere.”[20] La vita che le persone desiderano afferrare non è quella vissuta ma quella che non si conosce, non vorrebbero riavere la vita passata, ma quella futura.[21]

L’illusione della felicità è un concetto chiave della filosofia di Leopardi sul quale riflette anche nello Zibaldone: […] “nella vita che abbiamo sperimentata e che conosciamo con certezza, tutti abbiamo provato più male che bene; e che se noi ci contentiamo ed anche desideriamo di vivere ancora, ciò non è che per l’ignoranza del futuro, e per una illusione della speranza, senza la quale illusione e ignoranza non vorremmo più vivere, come noi non vorremmo rivivere nel modo che siamo vissuti.”[22] Anche in un altro dialogo vedremo che il piacere è sempre futuro e mai presente, in quanto siamo privi della capacità di afferrarlo e apprezzarlo sul momento.

Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare

Anonimo: Ritratto Torquato Tasso
Ritratto anonimo di Torquato Tasso, 1590 circa

La triste storia di Torquato Tasso (1544 – 1595) era particolarmente cara a Giacomo Leopardi e si può dire che fosse uno dei suoi poeti preferiti. Durante il suo primo viaggio a Roma nel 1823 Leopardi si recò al sepolcro del poeta. Torquato Tasso divenne celebre per la sua Gerusalemme liberata (1581) che ha come argomento la prima crociata e gli scontri tra musulmani e cristiani. Fu rinchiuso dal duca Alfonso II d’Este nell’Ospedale Sant’Anna (cella “del Tasso”) a Ferrara dal 1579 al 1586 per ben 7 anni. Pare che soffrisse di manie di persecuzione e autolesionismo e il motivo della cattività erano delle offese al duca o alle sue figlie. In prigione/manicomio Tasso continuò la sua produzione letteraria e scrisse numerose lettere a personaggi influenti per ottenere la sua liberazione. Dal 1580 le condizioni della sua prigionia migliorarono e al poeta fu permesso di uscire qualche volta. Poté inoltre ricevere visite come quella di Michel de Montaigne. Pare accertato che Tasso soffrisse di problemi psichiatrici (egli stesso lamentava allucinazioni e apparizioni) ma il motivo per una cattività così lunga era probabilmente di natura politica. In un suo Dialogo dal titolo Il Messaggiero composto durante il periodo della reclusione Tasso menziona un “gentil spirito”[23] dagli occhi azzurri (“simili a quegli che Homero alla Dea d’Athene attribuisce”[24]). Leopardi lo prende come spunto per il Dialogo di Torquato Tasso. Anche egli stesso è affascinato dagli spiriti e dai folletti, ne sono testimonianza il Dialogo di un folletto e di uno gnomo e il Dialogo di Malambruno e di Farfarello, dei quali il primo è stato preso in prestito dal Don Chisciotte di Cervantes.

Il Dialogo di Torquato Tasso si può strutturare in tre argomenti chiavi: la realità contrapposta all’illusione del sogno, il piacere e la noia. La Leonora del dialogo di Leopardi è Eleonora d’Este (1537 – 1581), di cui Torquato Tasso era innamorato. “Oh potess’io rivedere la mia Leonora. Ogni volta che ella mi torna alla mente, mi nasce un brivido di gioia, che dalla cima del capo mi si stende fino all’ultima punta de’ piedi;”[25] Tasso preferisce addirittura pensare alla donna che averla davanti: “Certo che quando mi era presente, ella mi pareva una donna; lontana mi pareva e mi pare una dea.”[26] Il suo genio concorda sul fatto che le cose sognate spesso sono più belle e dolci di quelle vere e cita un esempio: “Anzi ho notizia di uno che quando la donna che egli ama, se gli rappresenta dinanzi in alcun sogno gentile, esso per tutto il giorno seguente, fugge di ritrovarsi con quella e di rivederla; sapendo che ella non potrebbe reggere al paragone dell’immagine che il sonno gliene ha lasciata impressa, e che il vero, cancellandogli dalla mente il falso, priverebbe lui del diletto straordinario che ne ritrae.”[27] Vedere la donna significherebbe demolire le illusioni che non sono all’altezza.

Nel Dialogo di Torquato Tasso Leopardi fa anche alcune riflessioni importanti tratte dalla sua teoria del piacere: “[…] il piacere è un subbietto speculativo, e non reale; un desiderio, non un fatto; un sentimento che l’uomo concepisce col pensiero, e non prova; o per dir meglio, un concetto, e non un sentimento.”[28] Inoltre il piacere è sempre o passato o futuro: “Ma narrami tu se in alcun istante della tua vita, ti ricordi di aver detto con piena sincerità ed opinione: io godo. […] il piacere è sempre o passato o futuro, e non mai presente.”[29] La stessa opinione del genio viene espresso da Leopardi nello Zibaldone dove aggiunge “la felicità è sempre altrui e non mai di nessuno, o sempre condizionata e non mai assoluta.”[30] Oltre a ciò, se desideriamo un cavallo e giungiamo a possederlo, resta un vuoto perché il vero piacere risiede nell’immaginazione, nella speranza, nelle illusioni.[31] È il desiderio che ci riempie di felicità, una volta raggiunto l’oggetto subentra presto l’assuefazione. Pavese per tutta la vita aveva desiderato il successo letterario e al suo apice si suicidò perché non riusciva a procurargli la felicità sperata.

Il terzo argomento chiave del Dialogo di Torquato Tasso è la noia. “[…] Veramente per la noia non credo si debba intendere altro che il desiderio puro della felicità; non soddisfatto dal piacere, e non offeso apertamente dal dispiacere.”[32] Come si può fuggire dalla noia? I rimedi sono il sonno, l’oppio e il dolore. L’ultimo rimedio è quello più forte: “l’uomo mentre patisce, non si annoia per niuna maniera.”[33] Leopardi molto probabilmente allude alla sofferenza fisica che talvolta è in grado a migliorare lo spirito (in quanto non permette attività fisiche). Simili posizioni sulla forza creatrice della malattia si possono riscontrare anche nella Montagna incantata di Thomas Mann. Alla compagnia delle persone Tasso preferisce quasi “favellare in se stesso” e gli riesce talmente bene che a tratti pensa di avere una “compagnia di persone in capo che stiano ragionando” e di conseguenza si sente più solo in compagnia che in solitudine.[34]

Dialogo di Plotino e di Porfirio

Leopardi conosce bene le opere di entrambi gli esponenti della filosofia neoplatonica. Plotino (203/05 – 270) è celebre per le sue Enneadi, mentre Porfirio (233/34 – 305 circa), che fu suo allievo, è noto soprattutto per la sua Vita di Plotino. Sempre dopo la morte del maestro, egli scrisse anche il trattato Astinenza dagli animali. Come molti filosofi dell’antichità Porfirio era vegetariano per motivazioni etiche (evitare la sofferenza degli animali). Fin qui la sua posizione è condivisibile e denota sensibilità ma la sua astinenza riguardava anche il cibo in generale (piacere di gola) nonché il sesso (piacere del corpo). L’Astinenza dagli animali contiene molte parti interessanti in cui Porfirio attribuisce intelligenza e sentimento a tutte le creature della terra, ma i suoi accanimenti esaltati contro tutti i piaceri fanno già intravedere un disturbo mentale. Porfirio non ha fatto la fine del celebre matematico austriaco Kurt Gödel, che morì di fame per paura di essere avvelenato, ma il suo atteggiamento di evitare tutti i piaceri gli procurò una grave crisi depressiva che lo spinse verso il suicidio. Plotino l’aveva mandato in Sicilia per curarsi, era quindi a conoscenza delle sue intenzioni e Leopardi scrive il dialogo tra i due filosofi.

Monfredo de Monte Imperiali: Averroè e Porfirio
Monfredo de Monte Imperiali: Dibattito tra Averroè e Porfirio, Liber de Herbis, 14° secolo

Perché Porfirio voleva suicidarsi? “[…] ti dirò che questa mia inclinazione non procede da alcuna sciagura che mi sia intervenuta, ovvero che io aspetti che mi sopraggiunga: ma da un fastidio della vita; da un tedio che io provo, così veemente, che si assomiglia a dolore e a spasimo.”[35] Porfirio non aveva quindi alcun problema reale per permettersi il lusso della depressione, peraltro autoindotta. Secondo Plotino il suicidio non è lecito. “Anzi, per dir meglio, è l’atto più contrario a natura, che si possa commettere.”[36] Pensa che il suicidio è contro natura anche in quanto nessun animale si suicida. Porfirio ammette che “non ha luogo negli altri animali il desiderio di terminar la vita;”[37] Per Plotino l’infelicità di Porfirio è invece fisiologica, perché “[…] sempre il presente, per fortunato che sia, è tristo e inamabile: solo il futuro può piacere.”[38] La stessa teoria del piacere l’abbiamo già incontrata nel Dialogo di Torquato Tasso. Secondo Plotino quelli che soffrono il suicidio e per i quali andrebbe evitato sono i congiunti, gli amici e tutte le persone colle quali siamo usati di vivere da gran tempo.[39]

Alla fine del Dialogo di Plotino e di Porfirio, il saggio Plotino offre all’allievo il suo sostegno per affrontare la vita al meglio: “Viviamo, Porfirio mio, e confortiamoci insieme: non ricusiamo di portare quella parte che il destino ci ha stabilita, dei mali della nostra specie. Sì bene attendiamo a tenerci compagnia l’un l’altro; e andiamoci incoraggiando, e dando mano e soccorso scambievolmente; per compiere nel miglior modo questa fatica della vita.”[40] Leopardi ragiona molto sul suicidio e lo menziona anche ne La scommessa di Prometeo: “[…] nessun altro animale fuori dell’uomo, si uccide volontariamente esso medesimo, nè spegne per disperazione della vita i figliuoli.”[41] Per istinto l’uomo è senz’altro spinto a fuggire la morte e prolungare la vita il più possibile. Nel Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie i morti risuscitano nello studio del celebre medico ed anatomista. Lui coglie l’occasione per interpellarli sulla morte e loro affermano di aver sperato fino all’ultimo istante, che avanzasse di vita un’ora o due il che confermerebbe l’opinione di Cicerone secondo la quale nessuno è talmente decrepito che non si prometta di vivere almeno ancora un anno.[42]

Secondo Leopardi infatti pochi vecchi si suicidano, sono quasi sempre giovani perché con l’età aumenta l’amore e la cura per la vita. Sono poi celebri i passaggi sul suicidio dello Zibaldone: “Il suicidio è contro natura. Ma viviamo noi secondo natura? Non l’abbiamo al tutto abbandonata per seguir la ragione?”[43] Il dilemma risiede proprio nel fatto che non viviamo più secondo la natura come una volta ma secondo la ragione, che domina l’età moderna. Leopardi paragona poi il suicidio con la medicina, entrambi non sono naturali e potrebbero rendersi indispensabili se l’uomo non vivesse lontano dalla natura.[44] Generalmente la posizione di Leopardi nei confronti del suicidio è simile a quella di Arthur Schopenhauer, ci riflette a livello teorico ma non lo prende in considerazione per se stesso. Le riflessioni di Leopardi sul suicidio vanno lette nel constesto della sua epoca e non tengono ancora conto dei problemi che affliggono l’uomo moderno spinto verso il suicidio, magistralmente illustrate invece da Antonin Artaud nel saggio Van Gogh. Il suicidato della società del 1947.

Altri dialoghi

I cinque dialoghi che abbiamo analizzati sono stati scelti a caso, in verità ciascuno dei 24 dialoghi racchiude un universo. Nell’Elogio degli uccelli Leopardi si rivela un osservatore sensibile della natura. Rispetta la natura e gli animali a tal punto da desiderare egli stesso di poter diventare un uccello per un poco di tempo: “Sono gli uccelli naturalmente le più liete creature del mondo.”[45] “[…] io vorrei, per un poco di tempo, essere convertito in uccello, per provare quella contentezza e letizia della loro vita.”[46] Come tutte le menti fini ha grande considerazione per gli animali, ai quali attribuisce intelligenza e sentimento. Fu anche “ambientalista” e si rese conto quanto fosse insalubre la vita nelle grandi città come Londra o Madrid.

Il Dialogo della Natura e di un Islandese viene sempre citato come esempio del pessimismo cosmologico di Leopardi, ma racchiude un messaggio molto importante. L’islandese trova stolti gli uomini, “i quali combattendo continuamente gli uni cogli altri per l’acquisto di piaceri che non dilettano, e di beni che non giovano; sopportando e cagionandosi scambievolmente infinite sollecitudini, e infiniti mali, che affannano e nocciono in effetto; tanto più si allontanano dalla felicità quanto più la cercano.”[47] Ricorda un po’ la vita che tanti conducono nei nostri giorni affanandosi per poter comprare cose che non servono. Chi non consuma i prodotti inutili del lavoro, ha tempo di pensare molto e di conseguenza non si lascia controllare da nessuno. Già Socrate aveva capito al mercato che esistono numerose cose di cui egli non sente il bisogno.

La cascata islandese
La cascata islandese Scógafoss sul fiume Skógáa che proviene dal ghiacciaio Eyjafjallajökull

L’islandese risolve ritirandosi in solitudine. In verità il pessimismo di Leopardi non comporta la misantropia ma il contrario: “La mia filosofia, non solo non è conducente alla misantropia, come può parere a chi la guarda superficialmente, e come molti l’accusano; ma di sua natura esclude la misantropia, di sua natura tende a sanare, a spegnare quel mal umore, quell’odio […]”[48] Costituisce anzi il superamento della misantropia, visto che misantropo non è colui che si ritira, ma chi sta ancora tra gli altri uomini: “Chi comunica poco cogli uomini, rade volte è misantropo. Veri misantropi non si trovano nella solitudine, ma nel mondo: perché l’uso pratico della vita, e non già la filosofia, è quello che fa odiare gli uomini. E se uno che sia tale, si ritira dalla società, perde nel ritiro la misantropia.”[49] Il rimedio contro la misantropia è quindi l’isolamento e il ritiro. Schopenhauer ha una visione simile ed è dell’avviso che una persona piena di spirito si diverte anche in solitudine immersa nei propri pensieri e nelle proprie fantasie mentre i deboli di spirito si annoiano anche nella società e di fronte a tanti tipi di divertimenti. Chi riesce ad alimentare la propria mente non deve temere la solitudine e un sano distacco dalla moltitudine previene anche la misantropia quasi fisiologica.

Leopardi rimarrà sempre attuale perché era riuscito a scovare molte contraddizioni nei comportamenti umani. Nei Pensieri annota: “Napoleone fu amatissimo dalla Francia, ed oggetto, per dir così, di culto ai soldati, che egli chiamò carne da cannone, e trattò come tali.”[50] Per quanto assurdo, a distanza di secoli, i potenti ancora oggi sono venerati, indipendentemente a quanto male arrechino ai loro sudditi e la grande massa degli uomini continua a sottomettersi a loro senza battere ciglio, a strisciare ai loro piedi e a assecondarli in tutto e per tutto. Bramano che dall’alto gli vengano impartiti ordini per evitare di doversi scomodare a pensare, senza rendersi conto che la loro paura della libertà non solo opprime gli altri ma sfocia nelle dittature. Non ci deve quindi stupire la tendenza alla misantropia di Leopardi e di tanti grandi pensatori.  


[1] Giacomo Leopardi: Operette morali. Milano: Mondadori, 1988. p. 255

[2] “E a casa, un’altra maledizione: l’asma, quelle grinfie che ho nei polmoni a ventitré anni, mi ha quasi soffocato e respiravo come un sacco di sabbia o di patate. Bestemmie. Ira di Dio. Chissà a sessant’anni. (Cesare Pavese: Vita attraverso le lettere. Torino, Einaudi 1966, p. 102).

[3] Giacomo Leopardi: Zibaldone dei pensieri. In: Giacomo Leopardi. Opere Tomo II. Milano, Napoli: Riccardo Ricciardi Editore, 2006, p. 851 [4418], p. 870

[4] Ovidio: Metamorfosi. Torino: Einaudi, 2015 [1979], p. 165

[5] Leopardi, Operette morali, 51

[6] Leopradi, Operette morali, 51

[7] Ibid, 52

[8] Ibid, 55

[9] Ibid, 55

[10] Ibid, 224

[11] Ibid, 226

[12] Cfr, Ibid, 235

[13] Ibid, 100

[14] Ibid, 102

[15] Ovidio, Metamorfosi, 79

[16] Leopardi, Operette morali, 104

[17] Ibid, 106

[18] Cfr. Leopardi, Zibaldone, 224 [814]

[19] Leopardi, Operette morali, 253

[20] Ibid, 253

[21] Cfr. Ibid, 253

[22] Leopardi, Zibaldone, p. 851 [4284], Firenze, 1 luglio 1827

[23] Torquato Tasso: Il Messaggiero. Dialogo del Signor Torquato Tasso al Sreniss. Sign. Vincenzo Gonzaga Principe di Mantoua & di Monferrato. In Venetia Appresso Bernardo Giunti, e fratelli, MDLXXXII, I

[24] Torquato Tasso, Il Messaggiero, 5

[25] Leopardi, Operette morali, 107

[26] Ibid, 108

[27] Ibid, 109

[28] Ibid, 110

[29] Ibid, 111

[30] Leopardi, Zibaldone, 700 [3745], 21 ottobre 1823

[31] Cfr. Ibid, 83 [165] e 84 [167]

[32] Leopardi, Operette morali, 112

[33] Ibid, 112

[34] Cfr. Ibid, 113

[35] Ibid, 237

[36] Ibid, 243

[37] Ibid, 241

[38] Ibid, 248

[39] Cfr. Ibid, 250

[40] Ibid, 251

[41] Ibid, 99

[42] Cfr. Ibid, 160

[43] Leopardi, Zibaldone, 411 [1978/79]

[44] Cfr. Ibid

[45] Leopardi, Operette morali, 192

[46] Ibid, 200

[47] Ibid, 116

[48] Leopardi, Zibaldone, [nr. 4428], 874f

[49] Giacomo Leopardi: Pensieri, Milano: RCS/Fabbri, 2001, p. 124 (Pensiero LXXXIX)

[50] Leopardi, Pensieri, 111 (Pensiero LXXIV)

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