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La Consolazione della filosofia di Severino Boezio

Analisi e commento de La Consolazione della filosofia di Boezio, opera ponte tra antichità e Medioevo

Potrai mai comandare a uno spirito libero?
Potrai muovere dal proprio stato di quiete una mente
equilibrata ferma nella  sua razionalità?[1]

Introduzione

Insieme ad Agostino d’Ippona, Boezio è senza dubbio una delle auctoritates medievali le cui idee nei lunghi secoli che ci separano da loro non hanno perso attualità. Il caso peraltro vuole che i filosofi siano entrambi sepolti a Pavia, nella Basilica di San Pietro in Ciel d’Oro. Severino Boezio fu un filosofo neoplatonico, senatore, studioso e teologo romano della tarda antichità che ebbe una profonda influenza sulla filosofia medievale. La sua opera più famosa è la Consolazione della filosofia (De Consolatione philosophiae) che fu composta in prigione, negli anni ‘20 del VI. secolo. La prima traduzione dal latino in volgare risale già al IX. secolo e fu opera del re Alfredo d’Inghilterra, un accanito mecenate e promotore della cultura. Siamo di fronte ad un prosìmetro, un’opera mista tra prosa e versi dalla quale trasse ispirazione anche Dante Alighieri per la sua Vita Nuova

Miniatura di Boezio
Miniatura di Boezio imprigionato in un manoscritto della Consolatio del 1385

Durante tutto il Medioevo La Consolazione della filosofia fu estremamente diffusa e venne letta da generazioni di studiosi. L’opera è fortemente influenzata dalla filosofia stoica le cui idee furono soprattutto divulgate da Cicerone e Seneca (gli scritti originali degli stoici sono tutti andati perduti). Grazie a Marco Aurelio sappiamo che lo stoicismo è soprattutto un’arte di vivere. Al pari dei Ricordi dell’imperatore romano anche la Consolazione della filosofia ci aiuta sia nella ricerca della felicità che nel raggiungimento della sapienza. Oltre allo stoicismo un’altra influenza importante è quella del neoplatonismo di cui abbiamo già parlato in riferimento ai suoi maggiori rappresentanti Plotino e Porfirio, in quanto molto apprezzati anche da Agostino.

Boezio viene spesso considerato una figura chiave per il passaggio tra la filosofia classica dell’antichità e quella cristiana del Medioevo, di cui Agostino è considerato appunto il fondatore. La prima associazione che abbiamo con il Medioevo è di un’epoca buia in cui non poteva fiorire nessun tipo di pensiero umanistico. Questa definizione risale al Rinascimento che introdusse il Medium aevum per dividere l’antichità dal rinascimento. Purtroppo questo pregiudizio fu trasmesso a tutte le epoche successive e ha fatto in modo che non furono debitamente apprezzati i contributi di molti filosofi dell’epoca che anticiparono l’umanesimo come appunto Boezio. In qualche modo il rinascimento è la prosecuzione culturale dell’antichità, nel Gargantua e Pantagruele di François Rabelais viene ritenuto addirittura superiore come abbiamo mostrato nell’analisi dell’opera.

Severino Boezio

Boezio e Simmaco
Boezio e suo padre adottivo Simmaco

Severino Boezio (Anicius Manlius Torquatus Severinus Boethius) nacque nel 475 o nel 477 in una famiglia romana benestante e ricevette un’educazione classica. All’età di 13 anni dopo la morte di suo padre venne affidato a Quinto Aurelio Memmio Simmaco di cui avrebbe successivamente sposato la figlia Rusticiana nel 495 e con la quale generò due figli. Dopo essersi formato all’Accademia di Atene da giovane, la sua vita si svolse nel segno dello studio, delle traduzioni e dei commenti di classici antichi. Nella sua vita lavorativa si occupò di politica e prima di cadere in disgrazia ebbe una carriera piena di successo. Rivestì altissime cariche sotto Teodorico il Grande, re degli Ostrogoti che lo nominò consul sine collega nel 510 e addirittura magister officiorum nel 522. Anche i suoi due figli furono nominati consoli ancora in giovanissima età. A causa delle alte cariche rivestite si trasferì da Roma presso la corte di Teodorico tra Verona, Ravenna e Pavia.

Nel 523 la sua sorte però mutò e l’attività politica fu la causa della sua morte violenta. Dopo l’elezione di papa Giovanni I si intensificarono i rapporti con l’Oriente e Teodorico sospettò Boezio insieme ad altri di essere un alleato dell’imperatore d’Oriente, quindi di alto tradimento nei suoi confronti. Il filosofo venne incarcerato a Pavia nel 524 e gli fu comunicato la condanna di morte senza processo. Nell’estate 525 Boezio fu giustiziato senza essere mai sentito ma prima di morire, durante la sua lunga prigionia scrisse i cinque libri della Consolazione della filosofia.

Teodorico fece uccidere anche il padre adottivo di Boezio, Simmaco e imprigionare a Ravenna papa Giovanni I che sarebbe morto a causa della cattività nello stesso anno. Sempre nel 525 Teodorico stesso morì e si rese conto in ultimo dell’errore commesso che era costato la vita a tre innocenti. Nei giorni d’oggi ci sembra inconcepibile condannare qualcuno a morte senza processo soltanto per un sospetto infondato, ma se ci addentriamo nella materia giuridica senza farci illusioni dobbiamo ammettere che anche oggi come allora la vera giustizia non esiste e la corruzione e la falsità sono dilaganti. I casi di ingiustizia (o mala giustizia) saranno meno eclatanti che il caso di Boezio ma creano comunque sofferenza.

Come studioso Boezio era impegnato nella traduzione di numerose opere di Platone e Aristotele che voleva rendere accessibile in latino ad una platea più vasta. Nell’impero romano le conoscenze del greco erano molto diminuite ed egli ci teneva che i grandi filosofi greci potessero essere letti anche in latino. Tradusse tantissime opere di Aristotele, tra le quali Le categorie, De interpretatione, Analytica priori e Analytica posteriora e Dei Sophistica elenchi. Scrisse anche numerosi commenti alle opere del filosofo greco che ancor oggi sono cruciali per la comprensione della sua filosofia. E’ celebre anche un suo commento all’Isagoge di Porfirio precedentemente tradotta da Gaio Mario Vittorino che fungeva da approfondimento alla filosofia aristotelica.

Mentre soprattutto durante l’umanesimo italiano vennero sottolineate le differenze tra Platone e Aristotele, Boezio si impegnò a trovare le idee comuni del loro pensiero. Oltre che di filosofia e di etica si occupò anche delle discipline del quadrivium –  quindi di aritmetica, geometria, astronomia e musica – che venivano considerati propedeutici allo studio della filosofia e della teologia. Aveva un approccio piuttosto razionale nei confronti della religione ed era convinto che la filosofia e la ragione fossero capaci a farci condurre una vita felice e retta. Attribuiva a tutti gli animali immaginazione e volontà ma riservava la ragione al genere umano.[2]  

La Consolazione della filosofia

Il titolo latino dell’opera De consolatione philosophiae sovente fu tradotto con La consolazione della filosofia ma è più appropriato il titolo scelto della traduzione Einaudi, visto che siamo di fronte ad una personificazione, quindi ad una Filosofia con la F maiuscola. Quando iniziò la stesura dell’opera Boezio era infelice per le circostanze della sua vita: si trovò in cattività, vittima di un’ingiustizia ed era consapevole che lo aspettava una morte violenta. A causa dell’accusa di collaborare con l’imperatore d’Oriente per liberare l’impero romano dal dominio dei goti soffrì anche il disprezzo pubblico che gli fu riservato: “[…] vorrei dire solo che il peso più gravoso della sorte avversa e che, quando si attribuisce ingiustamente qualche misfatto ai disgraziati, si crede che essi abbiano meritato quel che sono costretti a sopportare.”[3] 

E’ consapevole che la sua condanna è ingiusta e ritiene correttamente che ogni assassino viene trattato con più rispetto: “In caso di omicidio la sentenza mi avrebbe punito quando ero presente, reo confesso e convinto […] ora invece […] privi della possibilità di parlare e di difenderci, siamo condannati a morte e alla proscrizione per l’eccessiva dedizione nei confronti del Senato.”[4]  Non conosciamo le esatte circostanze storiche della sua morte, Boezio potrebbe essere stato anche vittima di una congiura, frequente fra politici di alto rango.

La ruota della fortuna

La ruota della fortuna
La ruota della fortuna con tre asini di A. Duerer

Si rivolge quindi a Filosofia per capire perché la sua sorte sia mutata e come mai la fortuna sia così incerta. Quest’ultima gli fa capire che i beni di essa non sono dovuti ed è quindi normale che la sorte possa mutare in quanto gira come una ruota con fisiologici alti e bassi. “Ti sforzi invece di frenare l’impeto della ruota che gira?”[5] La ruota della fortuna è un concetto medievale molto comune che viene ripreso anche da Giordano Bruno nella filosofia e da Albrecht Dürer nell’arte, per citarne solo due. Nella filosofia possiamo trovare un riferimento ad Eraclìto di Efeso: panta rhei – πάντα ῥεῖ – tutto scorre: non si può entrare due volte nello stesso fiume e il mondo è trasformazione nel quale come tutto il resto muta anche la fortuna.

Chi accetta l’aiuto della fortuna deve essere consapevole che possa anche inaspettatamente abbandonare il beneficiato: “Tu ritieni che la fortuna sia mutata nei tuoi confronti: sbagli. Sono sempre queste le sue maniere, questa la sua natura. Essa, piuttosto, ha conservato nei tuoi riguardi la propria coerenza nella sua stessa mutevolezza; tale era quando ti lusingava, quando si prendeva gioco di te con le attrattive di una falsa prosperità. Hai scoperto il volto ambiguo della cieca divinità.”[6] Boezio fa poi un bellissimo confronto con le api che prima danno il miele, poi pungono: “Così è ogni piacere: / pungola chi ne gode / e al pari delle api che volano, / appena sparso ha il dolce miele, / fugge e ferisce i cuori / colpiti da implacabile morso.”[7] La fortuna cieca e l’ape sono diventati proverbiali nella simbologia.

Dürer, Nemesis, 1501
Albrecht Dürer: Nemesis, 1501/02, incisione su rame

Qui non possiamo fare a meno di menzionare la Nemesis o Grande Fortuna di Albrecht Dürer che fu ispirata dal Manto (1480)di Angelo Poliziano che a sua volta trasse origine dai miti antichi. Originariamente la Nemesis era vista come Dea della vendetta o dell’ira proprio perché i suoi favori venivano percepiti come distribuiti ingiustamente. Da divinità della giustizia (“ognuno riceve quello che merita”) era diventata quindi quella della vendetta. Nelle Metamorfosi di Ovidio la Nèmesi si chiama Ramnunte e punisce Narciso, mentre in un altro racconto viene descritta come una che non dimentica e riserba rancore.

La ricerca della felicità

Boezio conosce senz’altro le Confessioni di Agostino e fa riferimento ad un passaggio che aveva affascinato anche Francesco Petrarca: “Perché dunque, o mortali, cercate all’esterno la felicità posta dentro di voi? L’errore e l’ignoranza vi confondono.”[8] Gli uomini cercano fuori di sé la felicità che possono solo trovare all’interno di loro stessi. Anche Marco Aurelio sottolinea l’importanza di bastare a se medesimo e di non andare troppo lontano nella ricerca della felicità. In fondo i beni materiali, il potere e la fama non conducono alla vera felicità che possiamo trovare solo in noi e grazie al nostro atteggiamento. 

Se abbracciamo i beni esterni come se appartenessero a noi rischiamo invece di rimanere delusi. Molto spesso poi le cose che non appartengono né a noi né a nessun altro ci procurano molta più felicità: “[…] talvolta godiamo nel guardare il mare sereno, così contempliamo il cielo, le stelle, la luna e il sole. Forse qualcuna di queste cose ti appartiene, forse osi vantarti dello splendore di una di esse?”[9] Non possiamo mai possedere la natura ma possiamo ammirarla e trarne godimento. La vera felicità si trova poi nelle cose semplici che non si possono comprare con il denaro.

Oltre ai concetti degli stoici secondo cui chi possiede molte cose teme di perderle, anche Boezio si rende conto che la vera felicità non sta nella ricchezza: “hanno bisogno di moltissime cose coloro che ne posseggono moltissime e che viceversa hanno bisogno di pochissime coloro che misurano la loro abbondanza secondo la necessità della natura e non secondo la superfluità dell’ambizione.”[10] Anche in un passaggio in versi cita la brama delle persone verso le ricchezze: “[…] sed saevior ignibus Aetnae fervens amor ardet habendi  – Ma più feroce del  fuoco dell’Etna arde il disio bruciante d’avere”[11] Molti secoli dopo il psicoanalista tedesco Erich Fromm avrebbe scritto un libro critico nei confronti del consumismo dal titolo “Avere o essere” (To Have or to Be?). La felicità non è in vendita e lo stesso vale per il rispetto e la libertà. Pur trovandosi in cattività in Boezio non troviamo ancora riflessioni approfondite sul concetto di libertà, forse perché prima dovevamo vivere secoli di oppressioni e limitazioni alla libertà così cara a Étienne de La Boétie, Baruch Spinoza e Carlo Levi che le eresse un monumento in Paura della libertà.

La massima disgrazia che Boezio sperimenta sulla propria pelle è il ricordo della felicità perduta nell’infelicità: “in ogni avversità della fortuna, infatti l’essere stati felici è il genere più infelice di sfortuna.”[12] Mentre si strugge per il rimpianto della passata fortuna Filosofia gli fa notare che in fondo anche la felicità è piena di ansietà. O non siamo soddisfatti della felicità presente o temiamo che non possa perdurare per sempre. Non capita quasi mai che ci fermiamo per affermare convinti: Sono felice! Boezio non è stato né offeso né abbandonato dalla fortuna, essa non gli ha sottratto nulla, ha solo ritratto la mano.[13]

Tutti noi dobbiamo essere grati della fortuna senza considerarla un diritto che ci spetta. Del resto secondo il principio della ruota può sempre mutare e i momenti tristi possono passare come quelli felici. Filosofia spiega a Boezio anche che le avversità non ingannano e aiutano a riconoscere gli amici veri dagli adulatori, ci aprono quindi gli occhi. Un tesoro di cui possiamo fare uso quando le cose vanno meglio. “Ma colui che la prosperità aveva reso amico, la sventura lo renderà nemico. E quale flagello è più dannoso di un confidente divenuto nemico?”[14] E’ facile avere tanti amici quando la fortuna ci sorride, la difficoltà sta nel fatto a riconoscere quelli che ci volgeranno le spalle quando le cose cambiano. La sorte avversa a causa dell’instabilità e dei suoi repentini cambiamenti ai quali dobbiamo sottostare è invece in grado ad istruirci e non inganna mai come la fortuna.[15]

Riconoscere la felicità

Filosofia sostiene che la vera felicità è accontentarsi di poco e non possedere nulla di perituro in modo da non poter perdere nulla. Gli stoici distinguono quattro passioni fondamentali: piacere e dolore sono il bene/male presente mentre la brama e la paura gli stessi stati d’animo proiettati verso il futuro. Chi è ricco ha l’animo turbato dall’ansia di perdere le sue ricchezze e probabilmente brama anche altre, motivo per il quale si sente spesso insoddisfatto: “Le ricchezze, dunque, non possono rendere qualcuno non bisognoso di nulla e autosufficiente, eppure era proprio questo che sembravano promettere.”[16] Chi è ricco deve proteggere i suoi averi, “eppure non ne avrebbe bisogno se non possedesse denaro, che può perdere.”[17] Il ricco pensa di essere autosufficiente, sono però proprio le sue ricchezze che lo rendono dipendente dagli altri e limitano la sua libertà.

Visto che i ricchi hanno fame, sete e freddo come i poveri si può concludere che “le ricchezze possono alleviare l’indigenza, ma non possono eliminarla completamente.”[18] Lo stesso discorso viene applicato al potere: anche i re e i tiranni sono tormentati dall’ansia. “Quale potere è dunque questo, che non è in grado di scacciare i morsi delle preoccupazioni, che non è in grado di evitare gli aculei della paura?”[19] Dopo averci riflettuto insieme a Filosofia Boezio si rende conto della seguente conclusione che potrebbe fungere da massima: “Ebbene, –  io vedo – risposi – che l’autosufficienza non può essere ottenuta con le ricchezze, né la potenza con i regni, né il rispetto con le dignità, né la celebrità con la gloria, né la letizia con i piaceri.”[20]

La teoria della reminiscenza di Platone

Platone di Raffaello
Platone in primo piano nella Scuola di Atene di Raffaello Sanzio, Musei Vaticani, 1509/11

Alla fine del terzo libro Boezio riflette sulla morte e dopo aver affermato che anche negli animali c’è l’istinto di sopravvivenza, quindi lo “sforzo di conservare la propria salute e di evitare la morte e il danno”[21] cita la teoria della reminiscenza (ἀνάμνησις) di Platone. Secondo questa teoria, l’anima ricorda il suo stato prima della nascita quando era ancora collocata nel mondo delle idee. Conoscere significa quindi sempre ricordare, un concetto che troviamo anche nel neoplatonismo. I ricordi sono innati e possono completare l’esperienza. Anche gli stoici affermavano che la conoscenza nasce dalle rappresentazioni che vengono impresse nell’anima. Questo concetto è legato anche all’immortalità dell’anima che ha creato parecchi grattacapi a Baruch Spinoza di cui abbiamo analizzato il Trattato teologico-politico.

La malvagità e la giustizia

Uno dei dubbi maggiori di Boezio è perché mai nel mondo possa regnare il male, posto che ci sia un essere supremo che disponga le sorti. “E nessuno potrebbe mai meravigliarsi o dolersi a sufficienza del fatto che ciò accada nel regno di Dio, il quale tutto conosce, tutto può, ma vuole solamente il bene.”[22] Secondo Filosofia i malvagi non riescono ad essere buoni ma proprio per quello possiedono meno essere degli altri: “Potrà certo sembrare strano a qualcuno che diciamo che i malvagi, i quali sono la maggioranza degli uomini, non sono, ma è proprio così.”[23] In fondo il male e la malvagità costituiscono un allontanamento dalla natura per questo l’essere di questi individui diminuisce perché è come se il nulla lo divorasse. Boezio cita poi nuovamente Platone “secondo cui solo i sapienti possono fare ciò che desiderano, mentre i malvagi possono fare quel che loro piace, ma non realizzare quel che desiderano.”[24] Sarebbe bello vivere in un mondo del genere, in cui vengono posti dei limiti alla malvagità, ma purtroppo non corrisponde alla realità. Una domanda alla quale Boezio non trova risposta da Filosofia è perchè esiste così tanto male nel mondo.

Dea della  giustizia
La dea della giustizia con la bilancia in mano

 “Provo quindi una grande meraviglia per il fatto che accade il contrario, che i castighi dei delitti opprimono i buoni, mentre i malvagi si impossessano dei premi che toccherebbero alle virtù, e desidero sapere da te quale sia la ragione di una confusione tanto ingiusta.”[25] Boezio ammette che si meraviglierebbe meno se tutto nel mondo fosse soggetto al caso. Sapendo però che c’è un istanza che regge tutto è stupito che il mondo non possa essere più giusto e meno malvagio, in sostanza quindi come mai lui possa essere giustiziato. E’ molto comune che anche chi crede in Dio dubita della sua esistenza di fronte ad una sorte atroce. Sul tema mi è rimasta impresso nella mente l’affermazione di Elie Wiesel autore di La Notte che di fronte ad un bambino impiccato ad Auschwitz prima sente qualcuno chiedersi dov’è Dio che assiste a tutto ciò e poi conclude dentro di sé che è rimasto impiccato a quella forca.

Filosofia risponde che le cose avvengono sempre secondo giustizia, solo non conosciamo le cause. Pensa inoltre che a ognuno viene concesso quel che gli convenga in modo che non debba “sopportare un travaglio chi non sarebbe in grado di farlo.”[26] Questo atteggiamento è sicuramente stoico, lo possiamo incontrare anche nei Ricordi di Marco Aurelio. Invita anche ad accettare la sorte, se è sopportabile. Storicamente non sempre questo era possibile perché la malvagità degli uomini ha più volte superato ogni limite. Il concetto può essere applicato alle piccole cose della vita, ma perde il suo senso di fronte ai diversi crimini nei confronti dell’umanità perché invita più alla passività che alla ribellione.

Il caso e il libero arbitrio

Nell’ultimo dei cinque libri si discute se il caso esiste o meno. Secondo Filosofia niente viene dal nulla e tutto ha le sue cause, solo non sempre le conosciamo. “È dunque lecito definire il caso come un evento inatteso prodotto da cause confluenti in quel che viene fatto in vista di uno scopo.”[27] Boezio si rende conto che oltre al caso non esiste nemmeno il libero arbitrio, se Dio sa già tutte le azioni in anticipo. Secondo Filosofia anche se Dio sa tutto in anticipo a causa del nostro libero arbitrio non sa se e quando accadranno le cose. Pur trattandosi di un’opera di filosofia medievale (e quindi cristiana) Boezio nella Consolazione della Filosofia non menziona mai Cristo. Dobbiamo però ammettere che soprattutto gli ultimi due libri sono molto intrisi di concetti religiosi, forse perché Boezio si sta avvicinando alla fine della sua vita che spesso comporta una crescente spiritualità. Pratolini aveva scritto nella sua Cronaca familiare che solo un uomo di fronte alla morte che riesce a fare a meno di Dio potrà dire a buon diritto di non credere in lui. Prima di quell’esperienza estrema è ridicolo dare un giudizio in merito. Filosofia consola Boezio, ma lo abbandona al momento della morte.

Da Boezio a Dante

Dante Alighieri conosceva bene Boezio e lo cita sia nella Divina Commedia che nel Convivio. Nella Commedia lo incontriamo nel X canto del Paradiso dove sta in compagnia degli spiriti sapienti:

“Per vedere ogni ben dentro vi gode
l’anima santa che ’l mondo fallace
fa manifesto a chi di lei ben ode.

Lo corpo ond’ella fu cacciata giace
giuso in Cieldauro; ed essa da martiro
e da essilio venne a questa pace”[28]

Henry Holiday, Dante e Beatrice
Henry Holiday: L’incontro fra Dante e Beatrice sul ponte Santa Trinita, 1883

Secondo Dante Boezio riesce a cogliere l’essenza del bene, quindi Dio, e riconosce la fallacia dei beni mondani. La sua anima fu violentemente cacciata dal corpo e oggi ha trovato la pace nella Chiesa San Pietro in Ciel d’Oro (appunto il suo luogo di sepoltura a Pavia). Tra gli altri spiriti sapienti dello stesso cerchio troviamo Alberto di Colonia, Tommaso d’Aquino, Pietro Lombardo e ovviamente il vicino di tomba, Agostino d’Ippona.

E’ però soprattutto la forma della Consolazione della Filosofia mista tra prosa e versi che costituisce un importante modello per la Vita Nuova (1294). Il prosìmetro era molto popolare nel Medioevo ed è quasi sicuramente di origine greca. I primi esempi nella letteratura sono generi satirici (Saturae Menippeae di Varrone) ma viene usato anche nell’impero romano da Seneca e Petronio. Con Boezio avviene il passaggio di questo genere dai contenuti satirici a quelli filosofici. Dante prende come modello stilistico sia la Consolazione della Filosofia che le Confessioni di Agostino. Grazie ad alcuni sonetti come Tanto gentile e tanto onesta pare la Vita Nuova diventa una delle opere principali del Dolce Stil Novo.

Conclusione e attualità

Perché dovremmo leggere un classico come Boezio? Può la filosofia veramente darci una mano a vivere meglio e a raggiungere la serenità mentale? E’ difficile dirlo, ma probabilmente la filosofia e la cultura in generale ci aiutano a comprendere meglio le circostanze storiche. Le letture allargano la nostra mente e affinano lo spirito critico. L’opera di Boezio sembra quasi contemporanea perchè consiglia una vita semplice, quella che va molto di moda nei giorni d’oggi dove spesso le troppe possibilità rendono la vita complicata. Chi ha tanti soldi non diventerà più felice se ne aggiungerà altri. Nessuno ci può regalare più della natura e ammirare il mare, salire le montagne, camminare nei boschi non costa nulla. Sono poi le piccole cose che rendono felici e spesso nella nostra frenesia non ce ne accorgiamo nemmeno. Quando siamo preoccupati o ansiosi per il futuro dovremmo seguire una massima di Tolstoj: l’unico momento che conta veramente è oggi, qui e ora. Cerchiamo quindi di fare in modo da far andare le cose nella nostra vita da poter dire: sono felice!


[1] Severino Boezio: La Consolazione di Filosofia. Torino: Einaudi, 2010, p. 69

[2] Cfr. Boezio, Consolazione, 239

[3] Ibid, 25

[4] Ibid, 23

[5] Ibid, 43

[6] Ibid, 41

[7] Ibid, 109

[8] Ibid, 57

[9] Ibid, 62

[10] Ibid, 63

[11] Ibid, 67

[12] Ibid, 51

[13] „Quale offesa ti abbiamo fatto? Quali beni che fossero tuoi ti abbiamo sottratto? (Ibid, 43)

[14] Ibid, 105

[15] Cfr, Ibid, 77

[16] Ibid, 95

[17] Ibid, 97

[18] Ibid, 97

[19] Ibid, 103

[20] Ibid, 113

[21] Ibid, 135

[22] Ibid, 153

[23] Ibid, 163

[24] Ibid, 165

[25] Ibid, 185

[26] Ibid, 197

[27] Ibid, 213

[28] Dante Alighieri: La Divina Commedia. Paradiso. Canto X versi da 124 a 129. Citato da: https://digitaldante.columbia.edu/dante/divine-comedy/paradiso/paradiso-10/ [2/8/2021]

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