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Le vicende del bravo soldato Švejk di Jaroslav Hašek

Analisi e commento della figura del bravo soldato Švejk di Hašek nel suo aspetto antimilitarista e antiasburgico

Introduzione

Le vicende del bravo soldato Švejk (Osudy dobrého vojáka švejka) risalgono al 1921 e costituiscono l’unico romanzo dello scrittore ceco Jaroslav Hašek (1883 – 1923). Nonostante la vena comica, nello Švejk predominano un forte atteggiamento anti-absburgico e una marcata posizione antimilitarista. Il sottotitolo recita Durante la guerra mondiale ma si tratta perlopiù di una mera locuzione temporale perché il soldato Švejk non arriva mai al fronte. Si parla ovviamente della prima guerra mondiale nella quale l’autore fu chiamato sotto le armi anche se disertò già nel 1915 consegnandosi prigioniero ai russi. Quando aggiunse il sottotitolo, Hašek non poteva certo sapere che pochi decenni dopo avrebbe avuto luogo una seconda carneficina mondiale.

Del resto, come afferma un altro antimilitarista e contemporaneo di Hašek, Karl Kraus, “all’umanità la pallottola entrerà da un orecchio e uscirà dall’altro”[1]

Jaroslav Hašek (1883 – 1923)
Jaroslav Hašek (1883 – 1923)

L’autore satirico Karl Kraus (1874 – 1936) e Jaroslav Hašek provenivano da ambienti molto diversi e probabilmente non si sono mai conosciuti, avevano però in comune l’odio per gli orrori della guerra e lo stile satirico con cui ne scrivevano. Kraus fu il fondatore e il direttore della rivista “Die Fackel” (La Fiaccola)[2] e nel 1922 pubblicò un’importante commedia satirica dal titolo Die letzten Tage der Menschheit (Gli ultimi giorni dell’umanità) in cui criticava aspramente la prima guerra mondiale. Una scena di quest’opera ironizza sulla guerra come banco da macellaio che non delude i suoi clienti corvi.[3] Nel romanzo di Hašek, il soldato Švejk sottolinea invece i vantaggi macabri che possono trarre i contadini dalla guerra: “Non dovranno nemmeno comprarsi la farina d’ossa, ed è proprio un gran bel vantaggio per i contadini quando sul loro campo ci s’imputridisce un intero reggimento; […]”[4]

La figura del bravo soldato Švejk

Questa figura nacque già in alcuni racconti che Hašek pubblicò in diverse riviste prima della grande guerra. Per tanto tempo Le vicende del bravo soldato Švejk furono sottovalutate e considerate una satira minore. In Italia ha contribuito il meraviglioso saggio Praga magica (1973) dello slavista Angelo Maria Ripellino a diffondere la conoscenza della cultura e della letteratura ceca.[5] Ripellino non era solo sposato con la traduttrice praghese Ela Hlochova[6] ma nutriva anche un profondo amore per la città sulla Vltava. Nel 2002 l’Einaudi ha pubblicato la versione italiana di Le vicende del bravo soldato Švejk nella preziosa collana I Millenni. La traduzione è di Giuseppe Dierna, a sua volta allievo di Ripellino nonché traduttore di Milan Kundera, l’autore di La vita è altrove. Nei paesi di lingua tedesca lo Švejk è noto soprattutto per le numerose trasposizioni televisive e cinematografiche. La prima idea di pubblicazione del romanzo da parte dell’Einaudi risale ancora ai tempi in cui Cesare Pavese lavorava presso la casa editrice torinese e fu caldeggiata soprattutto da Elio Vittorini.

Francobollo di Švejk che va all’arruolamento con la Sig.ra Müllerová, illustrazione di Josef Lada
Francobollo di Švejk che va all’arruolamento con la Sig.ra Müllerová, illustrazione di Josef Lada

Josef Švejk è un clown, un burlone cinico, un anti-eroe (ma non alla Don Chisciotte) che ne combina una dopo l’altra, ma viene quasi sempre perdonato per la sua “idiozia notoria”. Al lettore non sembra poi così insipiente come si finge di essere e forse è semplicemente molto furbo. Quando inizia la guerra e viene chiamato soldato, per puro caso comincia a soffrire di reumatismi. All’arruolamento viene spinto dalla sua padrona di casa in carrozzina: “A parte le gambe, io sono carne da cannone in ottima salute, e nel momento in cui l’Austria se la vede brutta, ogni invalido deve farsi trovare al proprio posto.”[7] Švejk viene accusato di agire da simulatore e un ufficiale austriaco esclama arrabbiato: “Das ganze tschechische Volk ist eine Simulantenbande”[8] Si intuisce la feroce satira e la mancanza di entusiasmo della popolazione ceca per la guerra, iniziata da un imperatore che non fu amato dai cechi e soprattutto fu percepito come un’autorità straniera.

Il mito asburgico

Questo concetto è stato introdotto nella letteratura dal germanista triestino Claudio Magris con il suo saggio Il mito absburgico nella letteratura austriaca moderna del 1963[9]. La Finis Austriae ebbe un impatto molto forte non solo sugli abitanti dell’ex-impero ma su tutto il continente perché nel 1914, alla fine del periodo d’oro della Belle Èpoque, l’Austria-Ungheria  in termini di popolazione era il terzo paese d’Europa. Come scrive Magris nel suo saggio “Una febbre della sciabola, prima ignota al mondo austroungarico, spingeva ad una guerra che sarebbe stata una catastrofe.”[10] Nei primi secoli del loro regno, gli Asburgo avevano preferito mettere in atto una politica di matrimoni per allargare la loro potenza come testimonia la celebre frase: “Bella gerant alii, tu felix Austria nube”.[11]

L’imperatore Francesco Giuseppe, Kasimierz Pochwalski
L’imperatore Francesco Giuseppe
in abbigliamento da caccia, 1910,
Stampa a colori di un ritratto di
Kasimierz Pochwalski

Joseph Roth fa dire a un suo personaggio nella Kapuzinergruft che la grande guerra viene chiamata “guerra mondiale” perché in seguito ad essa la gente ha perduto il proprio mondo.[12] Disorientati dal nuovo mondo e schiacciati dalle rovine del 1918, tanti scrittori rimasero aggrappati alla tradizione absburgica. Spesso veniva esaltata e lodata la componente plurinazionale di un regno vastissimo, in cui tutti i popoli andarono d’amore e d’accordo. La realtà ovviamente era diversa, sotto gli Asburgo era sempre la parte di lingua tedesca quella che dominava l’impero. In effetti le ambizioni indipendentiste e nazionaliste di alcuni popoli dimostrano che non andava proprio tutto per il meglio. L’attentato di Sarajevo per mano di un giovane nazionalista che mirava all’autonomia della Bosnia fu il casus belli della prima guerra mondiale. Lo Švejk inizia proprio con la scena dell’assassinio di Francesco Ferdinando e di sua moglie Sofia il 28 giugno del 1914.[13] Alla buona memoria dell’impero austroungarico e alla sua mitizzazione contribuì certamente anche il fatto che ciò che venne dopo fosse decisamente peggio. Molti autori di lingua tedesca (prevalentemente ebrei) nel periodo dell’avvento del Terzo Reich cercarono perciò di mitizzare la monarchia di Francesco Giuseppe.

Una monarchia così idiota non dovrebbe nemmeno esistere al mondo.[14]

L’anti- mito absburgico nello Švejk

Nello Švejk succede esattamente il contrario per cui possiamo parlare di un anti-mito. L’autore muove una feroce critica alla civiltà absburgica soprattutto per aver dato l’avvio alla prima guerra mondiale. Dalle pagine del romanzo si eleva il contrasto tra la volontà del suddito che risiedeva nel rispettivo Kronland (terra della corona) e la volontà dell’imperatore.

A volte i commenti satirici nello Švejk hanno qualcosa di kafkiano e infatti Hašek e Kafka vissero nella stessa città e furono contemporanei (Il Processo è del 1925, il Castello del 1926). Vedremo anche in seguito che Hašek a torto viene considerato un burlone con una vita sregolata, incapace ad affrontare argomenti seri. A prescindere dall’aspetto comico, lo Švejk mostra diversi parallelismi con le opere di Kafka come testimonia per esempio la seguente citazione:

Qui veniva per la maggior parte meno ogni qualsivoglia logica, e a vincere era il §: il § soffocava, il § dava in escandescenza, il § scoppiava di rabbia, il § se la rideva, il § minacciava, il § uccideva e non perdonava. Erano giocolieri della legge, sommi sacerdoti nell’interpretazione del dettato dei codici, divoratori di imputati, tigri della giungla austriaca che misuravano il balzo sull’imputato in base al numero dei paragrafi.[15]

Riflettendo sui paragrafi e sull’ottusità della burocrazia austriaca sembra di trovarsi ancora in compagnia di Josef K. tra le pagine del Processo. Spesso Hašek mette a nudo anche l’inefficienza dell’organizzazione bellica e soprattutto la crudeltà assurda della guerra: “Sparare ai nemici e ammazzare dall’altra parte, con shrapnel e bombe a mano, supplenti di matematica non meno disgraziati di lui, la considerava un’idiozia bella e buona.”[16] Leggiamo di soldati affamati e chili di gulasch buttati, di organizzazioni fallimentari e di gatti impiccati in base ad un decreto del tribunale militare perché non avevano compiuto fino in fondo il loro dovere.[17] Soprattutto si parla di “bestiame umano destinato al macello”.[18]

Se qualcuno pensa che l’idea del ritratto di Francesco Giuseppe imbrattato dalle mosche nel Radetzkymarsch (1932) sia un’invenzione di Joseph Roth, si sbaglia. E’ Hašek che ha introdotto questo topos nella letteratura absburgica: “Qui un tempo stava appeso il ritratto di sua maestà l’imperatore […] e le mosche ci cacavano sopra, per cui l’ho messo in soffitta.”[19] Chi parla è l’oste Palivec che tradito dalle mosche viene arrestato per lesa maestà.[20] Nell’impero austro-ungarico bastava poco per andare dietro le sbarre perché c’erano spie ovunque e il governo voleva sapere di ogni singolo cittadino cosa pensasse di lui. La seguente citazione di Ripellino spiega molto bene perché l’opera di Hašek può essere considerata come diametralmente opposta al mito absburgico che troviamo in autori come Joseph Roth, Franz Werfel e Stefan Zweig (l’autore del Mondo di ieri):

La mancanza di affetto per il «mondo di ieri», il totale rifiuto dei valori della monarchia e una spietatezza molto boema permettono a Hašek di mettere a nudo il madornale scompiglio e la corruzione del rugginoso sistema, il suo capillare apparato di spie e di sbirraglia, l’inefficienza della macchina bellica, la coglioneria e crudeltà dei comandi, – insomma di guardare l’Austria senza rammarico, non come un frivolo Traumland da operetta, ma come uno squallido plesso di commissariati, prigioni, arrancanti tradotte, bordelli, caserme, lazzaretti, latrine.[21]

Hašek non critica soltanto la politica dell’impero absburgico, ma altresì il ruolo della chiesa. Anche in questo contesto possiamo trovare dei parallelismi con Karl Kraus che infine rifiutò sia la fede ebraica che quella cattolica: “Tutti quanti i preparativi per ammazzare la gente si sono sempre svolti nel nome di Dio […]”[22] “Il grande mattatoio della guerra mondiale non aveva fatto certo a meno della benedizione sacerdotale.”[23] In una scena famosa del libro, Švejk viene mandato dal cappellano militare Otto Katz a cercare dell’olio per l’estrema unzione e alla fine recupera olio di canapa numero tre. Il cappellano e Švejk però non arrivano in tempo per l’unzione e alla fine riciclano l’olio (poco sacro) per ingrassare le scarpe e oliare la serratura.

Nell’opera si percepisce anche un’aspra critica dell’imperatore Francesco Giuseppe che viene considerato un idiota notorio tanto quanto Švejk ma anche un personaggio immorale che pensa solo alle tasche proprie. La seguente citazione è attuale quanto mai: “E ricordatevi bene […] che qualsivoglia imperatore o re è solo alle proprie tasche che pensa, ed è per questo che si mette a fare una guerra […]”[24] Va ricordato che l’imperatore Francesco Giuseppe regnò per ben 68 anni dal 1848 al 1916 e quando firmò la dichiarazione della prima guerra mondiale aveva 84 anni ed era universalmente considerato un vegliardo senescente che ormai sragionava.

Il soldato Švejk nell'illustrazione di Josef Lada
Il soldato Švejk nell’illustrazione di Josef Lada

Il grafico Josef Lada ha illustrato il romanzo di Hašek che è stato tradotto in più di 100 lingue. Tuttora la figura di Švejk occupa un posto importante nell’immaginario collettivo ceco. Lo Švejk rappresenta in qualche modo l’atteggiamento del popolo ceco di fronte all’impero austroungarico e di fronte a tutte le altre autorità straniere che lo hanno schiacciato e soggiogato negli anni a venire. Hašek morì il 3 gennaio del 1923 a trentanove anni in miseria e dimenticato da tutti a Lipnice nad Sázavou dove si era ritirato per scrivere il romanzo. Non poté partecipare al grande successo della sua opera ma almeno gli fu risparmiato di assistere agli orrori della seconda guerra mondiale. Durante il suo esilio nel 1943 Bertolt Brecht scrisse una pièce di teatro epico dal titolo Schweyk im Zweiten Weltkrieg (Schweyk nella seconda guerra mondiale). Karl Kraus morì soltanto nel 1936 e nel 1933 scrisse un saggio contro Hitler dal titolo Die dritte Walpurgisnacht (La terza notte di Valpurga) che poté uscire solo vent’anni dopo.

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[1] “[…] Der Menschheit wird die Kugel bei einem Ohr hinein und beim andern herausgegangen sein.“ (Karl Kraus, Nachts. Aphorismen, [1924])

[2] L’ Accademia austriaca delle scienze ha digitalizzato tutte le edizioni della rivista Fackel apparse tra il 1899 e il 1936. Si possono consultare al link http://corpus1.aac.ac.at/fackel/ facendo una registrazione gratuita.

[3] “Eure Schlachtbank läßt nie darben – ihre angestellten Kunden. – Raben haben, seit sie starben, – immer Nahrung noch gefunden.” (Karl Kraus, Die letzten Tage der Menschheit, [1922])

[4] Jaroslav Hašek: Le vicende del bravo soldato Švejk. Durante la guerra mondiale. Traduzione e a cura di Giuseppe Dierna. Torino, Einaudi, 2010 [2002], p. 802

[5] Angelo Maria Ripellino: Praga magica. Torino: Einaudi, 1973.

[6] Traduttrice dei racconti di Jaroslav Hašek e di quelli di Bohumil Hrabal tra i quali la raccolta Inserzione per una casa in cui non voglio più vivere.

[7] Hašek, Švejk, p. 67

[8] Ibid, 71 (L’intero popolo ceco è una banda di simulatori)

[9] Claudio Magris: Il mito absburgico nella letteratura austriaca moderna. Torino: Einaudi, 1996 [1963]

[10] Magris, Mito absburgico, 202

[11] “Le guerre le facciano gli altri, tu, Austria felice, sposati” attribuita a Mattia Corvino, re d’Ungheria (Mattia il Giusto) (1458-1490).

[12] Cfr. “Viel später erst, lange nach dem großen Krieg, den man den »Weltkrieg« nennt, mit Recht, meiner Meinung nach, und zwar nicht etwa, weil ihn die ganze Welt geführt hatte, sondern weil wir alle infolge seiner eine Welt, unsere Welt, verloren haben […]” Joseph Roth: Die Kapuzinergruft. Köln: Kiepenheuer und Witsch, 2000 [1938], p. 44

[13] Cfr.„E cosí ci hanno ammazzato Ferdinando!“ Hašek, Švejk, 7

[14] Hašek, Švejk, 249

[15] Ibid, 30

[16] Ibid, 95

[17] Cfr. K. U. k. Militärmagazinekatze, Ibid, 824 f

[18] Ibid, 757

[19] Ibid, 11f

[20] Cfr. Roth: „Das weiße Gewand des Kaisers war von zahllosen Fliegenspuren betupft, wie von winzigen Schrotkügelchen durchsiebt. (Joseph Roth: Radetzkymarsch, 1932, p. 124)

[21] Ripellino, Praga magica, 309

[22] Hašek, Švejk, 150

[23] Ibid, 151

[24] Ibid, 321

4 risposte su “Le vicende del bravo soldato Švejk di Jaroslav Hašek”

Ciao Kristina. Non conoscevo né Kraus, né Hasek. Molto interessante. Complimenti!
Per il mio interesse verso la religione mi ferisce la frase di Hasek: “Tutti quanti i preparativi per ammazzare la gente si sono sempre svolti nel nome di Dio”. Una tristissima considerazione che spesso è ancora tremendamente attuale nel XXI secolo.
Grazie!

Ciao Gianpiero, mi fa piacere che tu abbia trovato interessante l’articolo. Personalmente mi sono avvicinata a Hašek e alla letteratura ceca grazie al saggio Praga magica di Ripellino. Se non lo conosci ancora, ti consiglio assolutamente di leggerlo. E’ uno dei libri più belli che io abbia letto negli ultimi mesi. Karl Kraus è molto noto anche come aforista. Come Hašek e Kafka, Kraus nacque in Boemia e trascorse praticamente tutta la sua vita a Vienna. Cercava di risvegliare le coscienze con i suoi scritti e le sue conferenze in un periodo in cui pochi intellettuali erano antimilitaristi e pacifisti convinti. Di origine ebraica si convertì al cattolicesimo per poi abbandonare anche quello. Forse comprensibile per chi ha visto coi propri occhi due guerre mondiali.

Dottoressa Jungmann ho letto l’articolo e chiaramente lei inquadra l’opera di Jaroslav Hašek come veritiera per il popolo ceco. Nel merito non sono d’accordo, poiché l’affermazione delle acciaierie boeme Škoda di Pilsen, consentirono ai cechi di possedere il più alto prodotto interno lordo dei Länder austriaci: ciò comportò ondate emigratorie che misero fine ai meccanismi di assimilazione di cui aveva ampiamente usufruito la borghesia e i proprietari terrieri di lingua tedesca. Difatti a livello intellettuale la produzione culturale dei boemi sotto l’Impero è stata di gran lunga superiore a tutta la sua produzione nazionale, venuta al seguito successivamente. E’ ampiamente confermato inoltre che le “avventure” del Bravo soldato Švejk siano frutto di invenzione da parte dell’autore, fervente anarchico. Sicuramente veritiera è la diserzione, avvenuta il 3 Aprile del 1915, del 28°Reggimento – composto da truppe ceche – sul Passo di Dukla. Tale frangente rafforzerà la parabola letteraria di Sc’vèik, che aumenterà la popolarità dell’inaffidabilità delle truppe ceche e avrà ripercussioni su molte truppe di ceppo slavo.
Sono concorde sul raffronto con Kafka, ma attuo una piccola diversificazione: in realtà Švejk non viene “perdonato” dal sistema burocratico dell’Austria-Ungheria, ma sempre punito severamente; proprio perché “l’aura mediocritas” amministrativa austriaca non comprendeva i disturbi mentali del protagonista, simbolo kafkiano de “Il Castello”.
Sull’attentato di Sarajevo, paradossale sarà l’assassinio di Franz Ferdinand, il quale ambiva propriamente nel creare il trialismo, ovvero la “terza testa d’aquila” con tre Parlamenti (Vienna, Budapest e Sarajevo) in forte contrasto con l’Imperatore Franz Joseph il quale aveva già aumentato la presenza dei boemi (quindi slavi) nel parlamento austriaco di Vienna. Kazimierz Feliks Badeni nel 1896 con una riforma elettorale allargava il Parlamento con 72 nuovi deputati: ciò comporta un ulteriore deperimento dei partiti tedeschi, i quali scendono nel 1897 a 77 deputati (47%), mentre la componente dei Giovani cechi sale a 45 deputati. Si teme nel paese un governo a guida slava, così si optò per una manovra politica atta a ramificare le rivalità politiche dal centro alla periferia e viceversa. Si chiami sempre Impero dell’Austria-Ungheria e non “austro-ungarico” appellativo corretto solo in campo economico e militare, dove le due Monarchie costituzionali erano unificate (ma non sotto il profilo politico) da un unico Imperatore. Infine mi conceda una precisazione sulla questione nazionale: Se si attua una riflessione sul concetto di nazionalismo, le nuove forme statuali che si erano affermate, al fine di ritagliarsi delle sotto entità – a tutto vantaggio delle élite borghesi-massoniche, che di questo movimento si facevano promotori –, condussero verso la guerra civile i popoli europei. Queste entità progressivamente, si sono auto-convinte di possedere una «missione nazionale», la quale si rafforzò con il pretesto – nel caso dell’Austria-Ungheria, dopo il 1867 – della «parità politica» per auto-legittimare il proprio credo. Il collegamento dei diritti democratici, alle istanze nazionali – verità per le primissime rivoluzioni -, non ha avuto fondamento di giustizia in seguito, ma fu un meccanismo pianificato ad hoc dalle nuove élite borghesi dominanti. Successivamente le nazioni, che nel frattempo si erano auto-legittimate, non si sono certamente dimostrate democratiche: la Germania nazista, basata sul regime di nazione, non lasciava certamente diritti politici ai propri popoli sotto la sua sfera d’influenza. La stessa unità tedesca, del 1871, non si è ottenuta per via democratica, ma per auto-affermazione degli Junker. Il nazionalismo nasce proprio contro i diritti democratici: un potere viene sostituito da un altro, ma il nuovo che avanza, vuole possedere la legittimazione delle sue azioni violente, tramite la morale e l’etica della sua inesistente democrazia. De facto se ad una nazione fa capo una missione storica, la quale si pone in contraddizione con l’obiettivo di un’altra entità, la risoluzione per l’auto-affermazione è la guerra. Se come affermava Vincenzo Gioberti (1801 – 1852) «gli italiani hanno una sacra missione», già si asseriva che lo scopo storico degli italiani doveva entrare in conflitto con la missione storica degli altri Stati preunitari. Della sua opera fondamentale il Primato civile degli italiani si evince come l’avanguardia spirituale italiana, fondata su una «religione secolare della patria», si basava su caratteristiche di particolare assolutezza. La saldatura tra protesta liberale e rivendicazioni nazionali fu garantita fino al 1848, ma non si trattava di un successo duraturo e sarebbe stato messo presto in discussione. D’altronde tutta la mitologia della nazione è stata costruita a tavolino, come atto di pressione nei confronti di un processo storico. Ne sono testimonianza le Accademie della lingua, senza le quali il concetto di nazione si affievolisce. I nazionalismi assoluti non hanno portato alla liberazione politica, ma hanno condotto i popoli verso la schiavitù totale, come storicamente hanno dimostrato fascismo, nazismo e comunismo, evoluzioni novecentesche di tale pensiero.
Ho intenzione di scrivere un articolo sulla vicenda boema, di di Jaroslav Hašek, che molta confusione ha creato nel dibattito sulla presunta oppressione dei popoli sotto l’Impero degli Asburgo, da sempre garanti dell’equilibrio Mitteleuropeo. Le inoltrerò quanto prima il mio contributo e la ringrazio per avermi dato la possibilità di aver letto il suo interessante punto di vista, personalmente non pienamente condivisibile.

Gentile Arch. Baiocchi, certamente si può essere non d’accordo con l’opinione dell’autore che egli ha rappresentato tramite il suo personaggio. Hašek era anarchico, pubblicava articoli giornalistici sia per la destra che per la sinistra, ebbe due mogli nello stesso momento (quando tornò dalla Russia), tentò di suicidarsi nel 1911 (mi pare), fu diverse volte arrestato, finì in manicomio, frequentò soprattutto bettole e quasi sicuramente l’abuso di alcol contribuì alla sua morte prematura. Volutamente nell’articolo non si fa cenno a questi aspetti perché potrebbe sminuire il valore letterario dell’opera che invece si vuole sottolineare. È ammissibile che qualcuno trovi storicamente poco autorevole l’opinione di un personaggio del genere.
Sul fatto se i cechi durante l’impero austroungarico stessero bene o meno (non solo economicamente) si può discutere. Dal momento che non possiamo interpellare chi abbia davvero vissuto quei tempi dobbiamo per forza limitarci alle testimonianze di cui fa parte anche la letteratura del periodo. Personalmente credo che né in Roth, né in Hašek troviamo una verità storica, ma una verità soggettiva, una delle tante verità come giusto che ci sia. La letteratura è velata di finzione e non pretende di avere valenza storica assoluta.
Per quel che riguarda i nazionalismi forse ha malinteso la posizione presa nell’articolo. Non intendevo assolutamente dire che le ambizioni nazionaliste furono una cosa buona, anzi. Se si occupa di storia austriaca, forse potrebbe trovare interessante Grillparzer che nel Bruderzwist in Habsburg se non sbaglio afferma che “L’itinerario della cultura moderna va dall’umanità alla bestialità passando per la nazionalità”.
La ringrazio molto per il suo contributo storicamente interessante che ha molto arricchito l’articolo.

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